Chi non conosce Johnny B. Goode di Chuck Berry? Scritta nel 1955, pubblicata nel 1958, questa canzone rappresenta un atto fondativo, quasi un certificato di nascita del rock’n’roll: eseguita e rifatta da innumerevoli musicisti, ha percorso l’intera storia del rock moderno. E se tutti ormai conoscono – anche solo per averlo sentito una volta – il ritmo travolgente di questo pezzo, meno conosciuta è la storia che esso racconta.
Johnny, il protagonista, è un giovane americano qualunque: il nome è uno dei più diffusi negli Stati Uniti, un po’ come dire “il signor Rossi” in Italia. Bene, questo signor Rossi è un ragazzotto di campagna, uno che non sa nè leggere nè scrivere, e che in compenso – come molti americani della sua generazione – suona benissimo la chitarra [a country boy named Johnny B. Goode/ Who never ever learned t read or write so well/ But he could play the guitar just like a ringing a bell]. Anzi, la chitarra la porta sempre con sè, in una borsa di pelle [He used to carry his guitar in a gunny sack]: di tanto in tanto si ferma a riposare sotto un albero, vicino alle rotaie del treno, e comincia a suonare, conquistando lo stupore e l’ammirazione dei passanti. La madre di Johnny – la signora Rossi, per così dire… – profetizza per lui un futuro radioso: «un giorno sarai un uomo, sarai a capo di una grande banda musicale: molta gente verrà da lontano a sentirti suonare […], forse un giorno il tuo nome sarà su un insegna che dice Stasera Johnny B. Goode» [His mother told him, “Someday you will be a man, And you will be the leader of a big old band. Many people coming from miles around To hear you play your music […] Maybe someday your name will be in lights Saying Johnny B. Goode tonight”]. Per il testo della canzone e la traduzione in italiano vedi qui
Chi è dunque Johnny B. Goode, chi è questo “signor Rossi” americano? Per molti aspetti, è l’incarnazione dello stesso Chuck Berry: anche lui un umile “signor Rossi”, tra l’altro nero (in un’America razzista e discriminatoria), capace di scalare le vette del successo musicale. Per altri aspetti, è il giovane adolescente degli anni ’50: ribelle, consapevole, ansioso di emergere. «Oggi può sembrare difficile da comprendere», ha scritto Gino Castaldo, «eppure un tempo [prima dell’esplosione del rock and roll, ndr] non esisteva l’idea del giovane come precisa categoria sociale. O almeno non come figura indipendente, dotata di un suo codice e di un suo mondo di riferimenti esclusivi. Prima era solo un uomo immaturo, un piccolo adulto in un periodo di addestramento alla vita, in procinto di entrare nella società. L’idea del giovane come figura autonoma ha una precisa origine. E’ l’effetto di un poderoso mutamento economico e sociale che avviene in America a partire dalla fine degli anni ’40 ed esplode tra il 1954 e il 1955, abbassando considerevolmente l’età del potenziale consumatore [musicale]» [G. Castaldo, La Terra Promessa. Quarant’anni di cultura rock (1954-1994), Feltrinelli, Milano 1995, pag. 50]. Il rock and roll è, appunto, il primo genere musicale che si rivolge al giovane adolescente come soggetto autonomo: e il signor Rossi/Johnny è il suo principale destinatario.
Johnny è anche – e forse soprattutto – l’incarnazione del mito americano, dell’american way of life: l’idea per cui il riscatto, il successo e la fortuna possono arridere a chiunque, anche a un tizio qualsiasi figlio di nessuno.
Come osserva Castaldo, Johnny diventa, nella storia del rock, un vero e proprio personaggio, ben al di là della creazione di Chuck Berry: è stato infatti «ripreso innumerevoli volte, diventando uno dei maggiori classici del rock […] al punto da risorgere in continuazione in tantissimi esempi successivi, che si rifanno più o meno direttamente all’originale: dal Johnny della dylaniana Subterranean homesick blues, alle diverse mutazioni in chiave reggae, prima tra tutte quella di Johnny too bad, a sua volta un classico che vanta innumerevoli versioni» [Castaldo, cit., pag. 66].
Una delle ultime versioni/mutazioni del “signor Rossi” è il Johnny 99 di Springsteen: anche lui un tizio qualsiasi, figlio di nessuno, proveniente dalle classi meno abbienti e dal mondo del lavoro. In Springsteen, però, il sogno americano – quello del ragazzo povero che può diventare ricco e famoso – si trasforma in un incubo: perchè Johnny può, certo, diventare ricco e famoso, ma può anche non diventarlo. Specie se le condizioni sociali in cui è costretto a vivere glielo impediscono: «hanno chiuso la fabbrica di automobili in Mahwah gli ultimi di questo mese/ Ralph si mise in cerca di un lavoro ma non ne trovò neanche uno/ arrivò a casa troppo ubriaco per aver mischiato Tanqueray e vino/ ha tirato un colpo di pistola ad un portiere di notte e ora lo chiamano Johnny 99» [Well they closed down the auto plant in Mahwah late that month/ Ralph went out lookin’ for a job but he couldn’t find none/ He came home too drunk from mixin’ Tanqueray and wine/ He got a gun shot a night clerk now they call ‘m Johnny 99].
Così, il protagonista della vicenda si ritrova di fronte al giudice, che la canzone definisce mean (cattivo, malvagio), mentre l’uso dell’aggettivo poor (povero) è riservato all’omicida (un’inversione di termini che farebbe incazzare, in Italia, tanto Veltroni quanto Berlusconi: dove la mettiamo l’emergenza sicurezza?). E l’arringa di Johnny è un atto di accusa contro la società americana:
«Signor Giudice avevo debiti che nessun uomo onesto può pagare
La banca teneva stretta la mia ipoteca
e loro si stavano portando via la mia casa
Ora non sto dicendo che questo faccia di me un innocente
Ma è stato tutto questo a mettere quella pistola in mano mia
Quindi, Vostro Onore, credo che sarebbe meglio uccidermi […]
Allora, non volete sedervi nuovamente su quella sedia
e pensarci sopra un’altra volta, Giudice,
E lasciare che mi rasino a zero i capelli e che mi mettano sulla sedia?»
[Now judge I got debts no honest man could pay/ The bank was holdin’ my mortgage and they was takin’ my house away/ Now I ain’t sayin’ that makes me an innocent man/ But it was more ‘n all this that put that gun in my hand/ Well your honor I do believe I’d be better off dead/ […] Then won’t you sit back in that chair and think it over judge one more time/ And let ‘em shave off my hair and put me on that execution line]
Il soprannome 99 si deve agli anni di prigione – novantanove, appunto – cui Ralph/Johnny viene condannato per il suo delitto. L’ottimistico american dream di Chuck Berry si trasforma dunque, in Springsteen, in un drammatico atto di accusa contro le esclusioni, discriminazioni e disperazioni indotte dalla società americana. E, come scrive ancora Castaldo, «questi Johnny […] sono comunque eroi delle classi meno abbienti: il primigenio Johnny è in un certo senso il primo working class hero di cui si avrà piena coscienza solo alcuni anni dopo» [Castaldo, cit., pag. 67].
Per concludere, ecco Springsteen e Berry insieme, in un’esecuzione dal vivo di Johnny Be Goode:
Sull’American Dream si potrebbe scrivere a valanga… e comunque una cosa sorprende l’osservatore europeo (o perlomeno me): che esso non sia una sorta di mito “colto”, “politico” o letterario, ma qualcosa che opera ed è presente sulla bocca e nella vita quotidiana delle persone. Se vogliamo un luogo comune, nel senso negativo e positivo del termine. La politica e la vita sociale e culturale europea non hanno mai prodotto una cosa del genere, almeno a mia conoscenza: ne i “lumi”, ne il liberalismo e forse nemmeno il socialismo. Forse un simile impatto da noi lo avuto solo la religione. O no?
E’ molto interessante quel che dici. Io ne so poco, sia perchè – francamente – non sono un grande esperto di queste cose, ma un semplice osservatore; sia, soprattutto, perchè non sono stato negli Stati Uniti, che conosco solo per aver letto qualche libro (pochi) e per aver ascoltato qualche canzone (moltissime, ma tutte distrattamente…). Anche a me pare che si tratti di un mito in qualche modo “popolare”, e anche a me sembra una caratteristica molto americana. In Europa ci sono – forse – riferimenti simili, ma molto ideologici, “colti”, comunque diversi.
Si, anch’io sono dello stesso avviso: una delle caratteristiche della vita sociale americana (almeno ad uno sguardo piu’ o meno superficiale) e’ veramente la sua apparente mancanza di “elitismo” in tutti i campi. Tocqueville quasi duecento anni fa scriveva di essere sorpreso dall’egalitarismo di questo paese (che allora, rispetto all’Europa restauratrice doveva essere immenso) e che a mio giudizio colpisce ancora oggi. Non perche’ ovviamente manchino le disuguaglianze sociali (i poveri ci sono eccome, sono tanti e si vedono di molto bene), ma perche’ c’e’ una sorta di democratismo di fondo nella vita quotidiana, nelle universita’ e nelle istituzioni, che colpisce favorevolmente. Il professore, il politico, il funzionario che hanno un ruolo di potere, non si atteggiano a casta, ad eletti per diritto divino (cfr. i baroni italiani), ma appaiono (almeno a livello di immagine) dei lavoratori come altri (anche se ovviamente privilegiati). In fondo questo e’ percepibile anche nell’immagine pubblica dei presidenti americani: lo stesso Bush, per quanto coglione uno lo possa reputare, durante le conferenze stampa e nei momenti pubblici alleggerisce sempre il suo ruolo con battutine, atteggiamenti da uomo comune, impensabili per i parrucconi della politica italiana ed europea.
Anche in queste leggerezze quotidiane si vede a mio avviso che questa e’ bene o male una nazione nata da una rivoluzione contro l’ancient regime, che invece da noi in fondo regola ancora (cattolicamente) comportamenti pubblici e privati.
I compagnucci di Liberazione (non tutti per fortuna), certi eterni membri di ridicole caste marxiste-leniniste, che lanciano ritualmente strali contro l’americanizzazione della politica, dovrebbero farselo un bel viaggetto da queste parti.
Gia’ li vedo a commentare osservazioni di questo tipo: “estetica”, “cosmesi politica”, dettagli di fronte alla dura materialita’ dei rapporti di forza imperialisti.
In realta’ io nietzschianamente credo all’importanza delle “cose prossime” e alla “profondita’ della superficie”. Lo stile e’ l’uomo…
Ma sarebbe un discorso lungo.
Caro Sergio,
ti segnalo un articolo di Martino Mazzonis &C. apparso su Liberazione di oggi (11/5/08, che forse avrai già notato) che a mio giudizio mette i punti sulle i al concetto di americanizzazione. Esprime alla grande una serie di riflessioni che stavo facendo da un po’ di tempo a questa parte. Mi dai il permesso per incollarlo nel commento?
Certo che ti do il permesso. Se mi piace, se parla di cose affini ai temi di questo blog, ne faccio un post specifico. Intanto grazie della segnalazione, vedo se lo trovo in rete: se no aspetto il tuo “incollamento”. Un abbraccio, sergio
Riporto di seguito l’articolo di cui parlavo. Mi sembra interessante su una serie di temi che sono stati discussi in questo Blog, a partire dalle riflessioni sulla sconfitta elettorale, fino alla cultura americana.
A me ha colpito perché, come ho detto, fa giustizia su questo concetto angusto, provinciale e antiquato, di “americanizzazione” che si trovava a più non posso in ogni riflessione pubblica sul voto (almeno all’interno del PRC). Riflessione che risulta di conseguenza fuorviante e fuori bersaglio.
Nomina sunt res, dicevano i latini, e quindi partire dalle cose indicate dalle parole non può che essere una salutare operazione di chiarezza.
Buona lettura.
Americanizzata
è l’Italia
Non l’America…
Mattia Diletti
Martino Mazzonis
Americanizzazione. E’ così che molti interpretano la catastrofe del 14 aprile per dipingere la direzione verso la quale corre il treno della politica italiana. Ma cos’è l’americanizzazione?
La prima risposta che viene in mente è quella legata al bipartitismo: negli Stati uniti è in vigore un sistema elettorale mal funzionante e criticato, con un forte deficit di rappresentanza democratica. Generalmente si immagina che sia un sistema dove tutti corrono al centro, promovendo politiche più o meno simili e inseguendo più o meno lo stesso elettorato. Questo non è vero da molto tempo: i repubblicani hanno dimostrato che si vince costruendo un’identità politica forte e con l’organizzazione delle proprie “truppe”. Quello che un tempo facevano i partiti europei. La corsa al centro ha caratterizzato i democratici della Terza via alla Bill Clinton: peccato che quella generazione politica, e quell’ideologia debole, sia già defunta.
Da noi non esiste un sistema bipartitico. A destra c’è una coalizione composita (nel quale la Lega certo non corre al centro), tenuta assieme dalla figura del Capo. Finché c’è lui. Dall’altra parte un capetto che ha cercato di uccidere la sinistra, e che invece si è suicidato nella sua corsa a destra. Senza un risultato così disastroso (che chiama in causa le scelte della sinistra prima delle strategie di Veltroni) ci sarebbe anche la sinistra. Forse il nostro quadro politico istituzionale somiglia più alla Spagna o alla Germania con i loro partiti localistici ben radicati e spesso determinanti, piuttosto che agli Stati uniti. La misura del nostro ragionamento, però, è quella di due fallimenti: l’americanizzazione c’entra poco.
E allora cos’è l’americanizzazione? Una campagna elettorale di plastica? L’applicazione delle regole del marketing alla lotta politica? Lo scarso dibattito sulle grandi questioni che appassionano o preoccupano gli elettori? Lo scarso protagonismo dei lavoratori e dei cittadini? Se è così, allora non ci siamo proprio. Anzi, l’America del 2008 sembra andare in direzione opposta rispetto all’idea di americanizzazione che abbiamo e che tendiamo troppo facilmente a usare.
Durante questa campagna per le primarie si stanno battendo tutti i record di partecipazione, specie sul versante democratico. Ovunque. E più in generale le organizzazioni comunitarie, i sindacati, i comitati che organizzano la registrazione al voto, stanno facendo uno sforzo epocale per far aumentare la quantità di persone che eleggerà il prossimo Congresso e il prossimo presidente. A differenza delle primarie del Pd italiano, poi, le primarie americane si stanno dimostrando un grande esercizio democratico su entrambi i fronti.
I repubblicani hanno nominato McCain contro la volontà della testa del partito e dell’amministrazione in carica. E sei mesi fa chi diceva che forse Hillary Clinton non sarebbe stata nominata in un batter di ciglia veniva preso per idiota. Barack Obama ha saputo mobilitare milioni di persone, i piccoli finanziatori della campagna e le centinaia di migliaia di volontari. Sul successo di questa campagna, sul suo mix di modernità e lavoro territoriale di base occorrerebbe davvero riflettere, forse studiare (prima che lo facciano tutti gli altri).
Per vincere Obama attinge alla tradizione politica del suo paese. E funziona. Da noi si scimmiottano le mode altrui: la sconfitta veltroniana – e la lezione di Obama – mostrano che per guardare al futuro bisogna saper fare i conti con quello che si è stati e trasformarlo in risorsa, senza però cristallizzare i simboli come fossero pietre. Obama, tra l’altro, raccoglie enormi consensi tra quei giovani stanchi di Washington e del suo modo immobile di funzionare: detto in italiano, prende l’antipolitica, le fa una proposta politica e la fa partecipare al processo politico.
Quanto alla società americana in generale, negli ultimi anni a centinaia di migliaia hanno sfilato contro la guerra – e la guerra è già costata le elezioni di mezzo termine ai repubblicani; i sindacati, specie quelli nei settori dove il lavoro è più precario e sfruttato, sono in crescita e sperimentano grande innovazione come nella SEIU; gli immigrati hanno saputo organizzare un movimento che ha portato nelle piazze più gente di quanta non se ne fosse mai vista nella storia degli Stati uniti d’America. Non esattamente una palude della politica, quella americana.
Se si parla di contenuti è la stessa cosa. Sanità, commercio internazionale, guerra, posti di lavoro volati all’estero, crisi strutturale del ruolo e della percezione che l’America ha di se stessa, immigrazione, riforma della politica e persino rapporti tra le razze. I temi della campagna elettorale sono questi. E’ di questo che bisogna rispondere all’elettorato, è questo che chiedono i giornalisti aspettandosi risposte puntuali e incalzando di fronte alla vaghezza. In America una conferenza stampa può essere un incubo, anche per il presidente. La sala stampa della Casa Bianca non è Palazzo Chigi e nemmeno il Cremlino.
Così dipinto il panorama politico degli Stati Uniti d’America sembra un paradiso. Non è così. Negli Stati Uniti le lobby sono un pezzo fondante del sistema, la partecipazione politica è ancora troppo bassa, i partiti spesso carrozzoni personalistici. E poi non c’è la sinistra. Ma quella è anche la storia di quel paese, una storia diversa da quella italiana. Ma per quanto sia un sistema non entusiasmante, quello americano non somiglia, ci pare, a quello italiano.
In Italia nessuno ha messo a tema la questione della crisi epocale che vive il paese, né stavolta, né in passato. E l’unico che mette a fuoco il tema della crisi della globalizzazione dei mercati è il futuro ministro dell’economia Giulio Tremonti, manifestando il paradosso che, in Europa, a guidare il ritorno del dirigismo e dell’interventismo pubblico in campo economico sarà la destra.
Esistono aspetti di “mercatizzazione” della politica molto americani, comuni a tutto l’occidente. E’ un fatto: ma da noi c’è una crosta d’America sotto un magma antico. Il ritorno del trasformismo politico, la venerazione per il capo, la richiesta di ordine della borghesia impaurita del nord, il sud dei notabili e delle clientele.
Americanizzazione è una formula troppo facile, che legge troppo poco di quanto accade nella società italiana: siccome le formule tendono a incrostarsi, si ripetono, si fossilizzano, dobbiamo invece raccontare, interpretare e criticare la società italiana per quello che è, senza usare la scorciatoia della “deriva americana”. Non serve a capire, serve solo a dare certezze.
http://blogamerica2008.blogspot.com/
Da”Liberazione” 11/5/2008
bah……di politica e di sogno americano ormai so ben poco…….mi e’ rimasto solo il “MIO” Chuck Berry. Devo confessare che mi commuovo spesso quando ho potuto partecipare ad un suo concerto (almeno 3 volte). Il mio sogno sarebbe stato incontrarlo e (follia) suonare con lui (anch’io sono chitarrista); e’ gia’ tanto averlo potuto ringraziare sul suo sito per le emozioni che mi ha dato.
Chuck ha 82 anni e per dare un’idea i beatles hanno iniziato con la cover della sua “rock’n’roll music”; i rolling con la sua “c’mon”……
Una precisazione ancora: Berry dedico’ il suo pezzo al suo pianista johnny johnson; in quanto al GOODE e’ la Good street dove lui stesso e’ nato. Un mix, ma il vero personaggio rappresentato e’ lui e la profezia di sua madre che gli diceva: “sai charles, farai successo nella vita”.
PURTROPPO L’EPOCA IN CUI USCI’ IL SUO PEZZO PIU’ FAMOSO (johnny b goode) rese conveniente descrivere il ragazzo come country boy e non colour boy come era nelle sue originarie intenzioni.
So che Berry ha appoggiato obama nella sua elezione.
Se suonasse in qualche party di festeggiamenti mi potete avvisare tramite questo blog? (io non conosco bene l’inglese).
qui (nel link) e’ chuck berry in inghilterra quest’anno…….un ragazzino di 82 anni……..
http://it.youtube.com/watch?v=VWD7Ba5baqs