Enrico Pugliese è uno dei più acuti e competenti studiosi italiani dei fenomeni migratori, nonchè uno storico animatore-dirigente della Rete Nazionale Antirazzista e dei movimenti per i diritti dei migranti. Questo articolo, pubblicato oggi sul Manifesto, comincia con un reportage su un viaggio verso Tirana, a bordo di una delle tante navi che riportano a casa i migranti albanesi. Di qui sviluppa una riflessione su come sono cambiate le cose, dall’epoca in cui gli albanesi sbarcavano a bordo delle “carrette del mare”. E, infine, propone un parallelo con gli “albanesi” di oggi, i migranti rumeni, criminalizzati e stigmatizzati come lo furono allora i cittadini del Paese delle Aquile. Una riflessione sulle “emergenze securitarie” – di ieri e di oggi – che ho trovato, letteralmente, splendida. Buona lettura…
Nella nave della Tirrenia da Bari a Durazzo su oltre un migliaio di passeggeri gli italiani si contano sulla punta delle dita. Eppure tutti parlano italiano: non solo nel senso che questa è la lingua con la quale tutti si rivolgono al personale di bordo o ai camerieri, ma anche perché in questa lingua i passeggeri, quasi tutti albanesi, a volte parlano anche tra di loro, soprattutto i più giovani. Si tratta d’altronde di ragazzi nati in Italia, magari da coppie miste, o arrivati giovanissimi. Anche l’aspetto avvicina sempre più questi nuovi albanesi agli italiani. La componente borghese dei viaggiatori – quella arrivata 15 anni addietro con i pericolosi gommoni e che ora viaggia in cabina – non si distingue affatto. Così nella componente proletaria, in larga misura giovane, l’aspetto è simile quello dei coetanei italiani. Pochi tra i passeggeri di ponte dormono sdraiati per terra, sono quelli più anziani, molto simili ai nostri emigranti-proletari che andavano in Svizzera o in Germania 40 o 50 anni fa. Non so se sono i più poveri nella nave, sono certo i più stanchi e quelli con maggior necessità (o volontà) di risparmiare. Sono gli emigranti di prima generazione, quelli che pensano innanzitutto al risparmio e al ritorno, come d’altronde la letteratura internazionale sulle migrazioni ha sempre sottolineato.
Ma la maggior parte dei passeggeri sono un’altra cosa. C’è chi si è stabilito definitivamente in Italia: quella albanese continua a essere tra le quattro o cinque comunità più numerose in Italia. C’è chi è ormai tornato e si è ristabilito in Albania. C’è, infine, chi – come la stragrande maggioranza dei nostri emigranti in Germania – vive la sua lunga esperienza di emigrante temporaneo, arricchendo con il suo lavoro il paese di arrivo e il paese di provenienza.
Tirana, città creativa
È da diversi decenni che non mi trovo d’accordo con chi considera l’emigrazione una soluzione fallimentare dal punto di vista dei paesi di partenza e solo una tragedia – o una fase di «non vita», secondo una visione sociologica poetico-reazionaria – dal punto di vista dei protagonisti. La realtà dell’emigrazione albanese smentisce tutto ciò, a partire da come è diventato il paese oggi. Il relativo benessere che si vede in giro – e che riguarda strati vasti della popolazione – non sarebbe stato nemmeno immaginabile senza l’emigrazione. E questa è la prima cosa, anche se non è la sola. Ci sono stati infatti anche i massicci aiuti della cooperazione internazionale che hanno avuto una incidenza maggiore che altrove (e probabilmente anche un tasso di spreco minore). Inoltre sul piano politico e del governo – pur tra crisi, temporanee derive (tra cui quella gravissima di dieci anni fa con le fallimentari piramidi finanziarie di Berisha), riprese e rischi sempre incombenti – le cose non sono andate del tutto male.
E anche ora, con tutto il governo di centro destra, Tirana (un quarto della popolazione del paese), mantiene la sua amministrazione socialista, con un sindaco bravo e creativo. Il risultato è che la città è irriconoscibile non solo rispetto all’epoca del crollo del regime, o della devastazione urbana effettuata ai tempi del primo governo Berisha, ma neanche rispetto a pochi anni addietro. D’altra parte un tasso di incremento del reddito superiore a quello della Cina – già grande paese amico (mi viene da pensare ai 704 milioni di albanesi di Riccardo Lombardi) – non può passare inosservato. Ma non è tutto rose e fiori.
Un tasso di disoccupazione del 20% non è un problema da poco. Né la situazione può essere sdrammatizzata se si tiene conto dell’occupazione informale che è diffusissima. Infatti se il dato sul lavoro nero porta a ridimensionare la disoccupazione reale, va ricordato anche che questo è sottostimato per effetto della fuoriuscita della gente dal mercato del lavoro. E per gli ex-emigranti la prospettiva di un lavoro dipendente a un tasso di salario ufficiale pari o inferiore a un quinto di quello che ottengono all’estero non è certo invitante. Insomma 13% di crescita, 20% di disoccupazione: ormai le cose funzionano così.
La fuga
Ma ripartiamo dall’inizio. Alla vigilia del crollo del regime comunista l’Albania era un paese largamente rurale, assolutamente prostrato, con una agricoltura arretrata e al contempo sempre meno gestibile. È in questo contesto di estrema crisi economica – e grazie alla mutata situazione politica internazionale – che avviene «l’assalto alle ambasciate» da parte di chi tentava di fuggire: è la prima generazione dei profughi. A guidare la rivolta c’è senza dubbio una componente politica, ma c’è soprattutto la situazione di crisi economica. E questo assalto alle ambasciate con l’obiettivo di partire verso i ricchi paesi di Occidente è una delle prime dimostrazioni di quanto sia difficile distinguere tra emigrazione economica e emigrazione politica. La gente aveva imparato a conoscere il paradiso italiano attraverso la televisione i cui programmi si captavano in Albania.
Ma se l’equivoco politico può valere per le prima ondata del 1990 – per i nuovi Skanderbeg che, nella retorica dell’epoca, fuggivano dall’oppressione (islamica o comunista, è uguale) – esso è del tutto chiarito con le due famose ondate di arrivi in massa nell’inverno del 1991 a Brindisi e poi a Bari nell’estate successiva, quando ai profughi concentrati nello stadio-lager di Bari il cibo venne gettato dall’alto come a bestie. Comunque nessuno poteva più sostenere che si trattava di profughi politici: il regime era crollato. E non a caso a essi venne fornito un permesso di soggiorno «per motivi umanitari».
Detto tra parentesi, nella letteratura internazionale del campo dei migration studies, l’episodio di Bari venne registrato e commentato più volte con una pessima figura da parte dell’Italia.
Ma l’immagine più famosa, non solo per la celebre foto di Oliviero Toscani, è quella della nave carica all’inverosimile di uomini arrampicati fin sui pennoni più alti. Si fuggiva davvero in quel modo e ben lo ha mostrato anche il film di Gianni Amelio, Lamerica.
Gigi Perrone, compagno storico del manifesto nonché tra i importanti studiosi della emigrazione albanese in Italia, fu uno dei primi ad arrivare in Albania a quell’epoca. Il racconto di Perrone è ancora più vivido di quel che si può leggere nei suoi libri. La situazione economica era assolutamente disastrata: non c’era più nulla e soprattutto non c’era nulla da mangiare. L’emigrazione era l’unica possibile soluzione. Il tutto aggravato da un accanimento disperato contro ciò che poteva rappresentare un simbolo dell’organizzazione sociale ed economica di prima. Perrone parla dei vetri delle serre rotti e della distruzione della vecchia agricoltura statalizzata. All’implosione politica ed economica del regime non corrispondeva alcuna alternativa. Ed è a partire da allora che l’emigrazione diventa la base di tutto.
Ma a quella devastazione del capitale fisico – per quel che ormai valeva – non corrispose affatto la devastazione del capitale umano. Non è retorica: per comprendere la situazione dell’immigrazione albanese di oggi, quella che si può definire di maggior successo nel panorama complessivo nazionale, non si può prescindere da questo dato.
Era De Gasperi che nel dopoguerra in Italia invitava i proletari senza possibilità di occupazione nel proprio paese a imparare le lingue per emigrare. La differenza tra il grande statista italiano e l’orrido dittatore stalinista è che il primo proponeva una soluzione tanto impraticabile quanto insultante mentre il secondo, con la scolarizzazione di massa fino a sedici anni, determinava le condizioni per conoscere e imparare effettivamente le lingue. Ciò a dimostrazione che – come ci ha insegnato Brecht a proposito di Galileo – «non tutto è grande in un grande uomo» e che, di conseguenza, forse non tutto era orrendo nel compagno Enver Hoxha. E si sa che istruzione genera istruzione, cultura genera cultura. Viene da ricordare una delle scene del film di Amelio quando i ragazzini delle famiglie di profughi sotto la nave-carretta prendono lezioni di italiano da una ragazza solo un po’ più grande. E per questo che ora è difficile nella scuola media superiore italiana distinguere i ragazzi albanesi da quelli italiani de souche (come direbbero, con una punta di razzismo, i demografi francesi) e soprattutto non è possibile distinguerli all’università o in qualche raro ufficio o azienda dove i più scolarizzati hanno trovato lavoro. Si tratta di un’estrema minoranza ma, per quanto numericamente modesta, esprime l’elevato livello di integrazione. D’altronde i pochi indicatori attendibili di integrazione che gli studiosi delle migrazioni riescono a produrre collocano gli albanesi nei gradini più alti della scala.
E pensare che questi erano «i clandestini venuti per delinquere», secondo le definizioni delle alte cariche dello stato. Così volevano essere quelli della Kater I Rades, «gloriosamente» affondata dieci anni fa – con centinaia di morti – dalla marina militare italiana per evitare la pericolosa invasione (solo il manifesto se n’è ricordato un anno fa). Già, «l’invasione della Puglia». Chi se la ricorda più?
Con le navi di linea
Perciò, per concludere, è il caso di ripercorrere velocemente la storia degli immigrati albanesi da quando venivano salutati come novelli Skanderbeg, a quando divennero l’emblema dell’immigrazione clandestina, gestita dagli «scafisti criminali», a ora che non se ne parla più.
Ed è normale che non se ne parli: gli albanesi lavorano, hanno famiglia e i figli vanno a scuola. Non mancano i problemi e le difficoltà, non manca neanche qualche delinquente. Ma nel complesso non c’è nulla di eclatante che li riguardi. Vanno e vengono tra Italia e Albania con le navi di linea e non ci sono più pericolosi attraversamenti e sbarchi rocamboleschi. Insomma poche cose da raccontare e poche immagini da riprendere dopo tutto il veleno che è stato versato su di loro negli scorsi anni. Nell’immaginario italiano e nei mezzi di comunicazione di massa gli albanesi salgono e scendono. E l’immagine prevalente esaspera la realtà ed esclude la complessità dei processi. Alla difficile fase dell’immigrazione di massa sono seguite la normalizzazione e l’integrazione, che non interessano nessuno.
È comprensibile che nella prima fase devianza e criminalità avessero un’incidenza significativa, come è normale nelle prime fasi di un’esperienza migratoria senza alcuna assistenza e con un quadro legislativo e istituzionale che spingeva alla clandestinità. Ma ora, grazie alla tenacia, al lavoro e all’istruzione degli albanesi, nonché ai permessi di soggiorno e alle regolarizzazioni, il quadro è radicalmente mutato.
Tuttavia il posto degli albanesi è stato preso da altri, specificamente dai rumeni. Ai problemi gravi che indubbiamente ci sono – e che sarebbero superabili con efficaci politiche di integrazione – si somma un’isteria devastante nei loro confronti che finirà per impedire queste politiche senza alcuna soluzione alternativa. Ora che i riflettori sono puntati sui rumeni si può parafrasare il sottotitolo del libro di Gian Antonio Stella, L’orda, che racconta di quando i clandestini e i criminali, anzi i presunti tali, erano gli italiani. Come si ricorderà, il sottotitolo recitava «quando gli albanesi eravamo noi». Ora si può dire «quando i rumeni erano gli albanesi».
Enrico Pugliese, «Il Manifesto», 7 Maggio 2008
ho letto e apprezzato moltissimo anche perchè le mie origini sono….albanesi 🙂
ottima analisi. condivido in pieno tutto ciò che ho letto. da membro dell’associazione mergimtari di cuneo avrei piacere di conoscerla e sostengo da sempre che la storia dell’immmigrazione è sempre la stessa, uguale x tutti nelle sue più vaste accezioni. caratterizza tutti nel medesimo modo, che sia italiano, albanese o rumeno… rimane un’immigrato, con l’utopico e talvolta reale desiderio di avere di meglio.
Ti prego anzitutto di darmi del tu: in fin dei conti, in quanto membri di associazioni di volontariato, che si battono per la tutela dei diritti, siamo compagni di strada. Farebbe piacere anche a me conoscerti, e conoscere la vostra associazione. Teniamoci in contatto, nel blog trovi tutti gli strumenti per contattarmi: numero di telefono e indirizzo di posta elettronica (devi aprire la pagina “contattami” in alto).
Un abbraccio e buon lavoro
sergio
mi chiedevo giusto ieri come può un popolo che vive da anni sotto il giogo della camorra, riuscire a bruciare dei campi, scansando di poco la possibilità di bruciare persone, solo in nome di un ipotetico rapimento…premettendo che ci sia stato dove finisce la responsabilità personale…che significato ha massacrare un popolo solo perchè è un popolo….continuo a ripeterlo da tempo alle persone stupide che mi circondano e che credono alle cavolate della televisione….la guerra tra poveri è iniziata e servirà solo a fare più ricchi i ricchi…ho tanta paura di questo mondo in cui lo spazio protetto è l’unico sentimento di appartenenza ad una comunità….ai napoletani dico solo questo: potevano uccidere e picchiare o solo denunciare tutti i mandanti degli omicidi dei “proiettili vaganti” tanto comuni nel nostro sud Italia ma si vede che i morti fatti da criminali valgono assai meno dei piccoli rapiti dagli sporchi rom….ipocrisia di un paese che meriterebbe di soffocare nella sua stessa ignoranza…
Unarticolo che fa piacere vedere sottolinerare come sono gli albanesi oggi e com’è L’Albania oggi.
Tutto è cambiato in pochi anni.
Questo è successo perchè l’Albania è un piccolo paese..
Grande come la Sardegna
le sfide non finiscono mai ma la sfida più grande l’abbiamo sconfitta ;sopportando moltissimo.
per saperne di piu sui cambiamenti dell’Albania
http://turismoinalbania.blogspot.com
tutto in Italiano e senza filtri
Salve sono un insegnante di matematica appassionato di storia. Non so se mi trovo nel sito giusto, comunque cerco notizie della storia dell’emigrazione albanese ijn Italia , quella seguita alla morte di Scanteberg . Conoscete qualche sito che tratti l’argomento. ?
Vi ringrazio e saluto Mario