In questo splendido articolo, di prossima pubblicazione sulla rivista «Guerre e Pace», Giuseppe Faso spiega alcune dinamiche della costruzione sociale del razzismo, e propone alcune strade possibili contro il dilagare della xenofobia mediatica e politica.
Il 28 luglio, in una frazione di Cerreto Guidi, una bottiglia molotov viene scagliata contro un gruppo di Sinti da due individui in moto. La prima agenzia di stampa che batte la notizia si inventa: «L’ipotesi più accreditata è che il gesto sia il frutto di una “bravata” compiuta da qualche adolescente del luogo». L’espressione è ripresa pari pari dalla maggior parte dei media. Non risulta nessun soggetto accreditato che abbia espresso tale ipotesi – anzi, perfino un fan di Oriana Fallaci, il presidente del Consiglio Regionale della Toscana,Riccardo Nencini, esprime una ferma condanna. Ma mentre queste ultime espressioni di condanna fanno parte del corredo retorico d’uso (non sono seguite infatti da nessun atto pratico), le parole dei giornali comunicano una promessa di impunità ai futuri attentatori. Mendicare ai semafori è un crimine contro il vivere civile, attentare all’incolumità e alla vita di persone appartenenti a minoranze stigmatizzate è una ragazzata.
Nei confronti delle minoranze «zingare» i messaggi delle autorità, la routinizzazione degli atteggiamenti discriminanti, la privazione delle qualifiche di umanità rendono inoperosi principi e regole morali, e non sono più sanzionati atti criminali. Intanto i Sinti aggrediti continueranno a spostarsi, cacciati (è il termine più amato dai titoli dei giornali) perché «non sono previsti spazi attrezzati» dalle medesime aministrazioni comunali che deploreranno i prossimi gesti omicidi, e si terranno i criminali che li compiono, derubricati dai giornali a ragazzi dediti a bravate e comunque spesso imperseguibili per mancanza di testimonianze.
Appena il giorno prima, la notizia della morte per annegamento di due bambine Rom vicino a Procida era stata corredata da titoli e fotografie che mostravano l’assoluta indifferenza dei bagnanti verso i due corpi stesi sulla spiaggia.
Deumanizzazione e carenza civile
Siamo di fronte a un salto ulteriore nel discorso sulle minoranze: alla discriminazione e all’inferiorizzazione ora succede una strategia della deumanizzazione [Già Tajfel, in coincidenza impressionante con l’analisi di Primo Levi in Se questo è un uomo, aveva indicato nella deumanizzazione uno stadio successivo rispetto alla depersonalizzazione: in seguito la differenza è stata approfondita analiticamente; per una efficace rassegna si veda Flavia Albarello e Monica Rubini, Relazioni intergruppi e fenomeni di deumanizzazione, in «Psicologia sociale», 1, 2008, pp.67-94].
In molti vi hanno contribuito, a partire da quei dirigenti del «centrosinistra» che l’anno scorso hanno riservato la qualifica di efferato [per una parziale documentazione, rinvio alla voce «Efferato», nel mio Lessico del razzismo democratico, DeriveApprodi, Roma 2008] solo ai crimini attribuiti ai romeni, forse senza rendersi conto, per la loro costernante carenza di riferimenti civili, di ripercorrere passi ben conosciuti sulla via della deumanizzazione: per esempio, durante il fascismo, nei confronti dei repubblicani spagnoli. «Durante la guerra di Spagna si cominciò a sentir parlare, per la prima volta, dei senzadio. Veramente, più che sentir parlare, era una presenza massiccia a scuola, dalla voce della maestra, nelle prediche in chiesa, in famiglia e negli incontri con conoscenti e amici […]. I senzadio facevano ovviamente il male e non avrebbero potuto non farlo. Però il male lo facevano in modo diverso dai cattivi normali; i normali, ad esempio, potevano uccidere, i senzadio uccidevano in modo efferato, i normali rubano anche in chiesa, loro profanano; i normali possono talvolta far del male ai bambini, loro certamente seviziano» [Bepi Malfermoni, Effe U Emme O. Parole dalla scuola e dintorni, Perosini, Verona 1995, p.5].
Oggi sappiamo come tali processi di deumanizzazione (in questo caso attraverso la demonizzazione, in altri attraverso la privazione dell’attribuzione di umanità) siano stati funzionali all’annientamento di popolazioni, considerate alla stregua di insetti sottoposti a un trattamento di disinfestazione, come a proposito degli ebrei sterminati dai nazisti ha scritto Tajfel.
Che (possiamo) fare?
Per questo, di fronte a processi analoghi, come quelli che viviamo oggi, un atteggiamento illuministico è del tutto insufficiente. Se è vero che, rispetto alle acquisizioni delle scienze sociali, «la scarsa qualità del dibattito pubblico è del tutto ingiustificabile» [Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, Stranieri in Italia. Trent’anni dopo, il Mulino, 2008, p.9], non si può continuare a opporre solo il buon senso al dilagare di un discorso pubblico sistematicamente intriso di razzismo e ai concreti atti legislativi che, raccogliendo anni di proterva incapacità di governo del fenomeno immigrazione, muovono ora all’aggessione violenta dei diritti dei più deboli e dei fondamenti della Costituzione.
E’ ora di smetterla di adagiarsi nella ripetizione della denuncia dei vulnera alla nostra bella civiltà giuridica, e nella lamentela per i diritti violati di immigrati, Rom e Sinti, e di elaborare un «che (si può) fare» su cui muoversi presto e in tanti. Accenno, qui, a tre livelli di mobilitazione.
Su un piano politico e giuridico, è da praticare la denuncia, in sede di Unione Europea, del razzismo di alcuni ministri e di alcune decisioni parlamentari, nonché il lavoro di lotta sui conflitti tra le decisioni del Parlamento e la Carta Costituzionale. Su questo piano l’attività dell’ASGI e di altri soggetti è da tempo preziosa, e di recente si sono mosse assai bene alcune associazioni di difesa del popolo Rom, creando più di un disturbo al manovratore. Si tratta ora di imparare bene come si fa; anche se nel caso dei diritti degli immigrati la situazione in Europa è tutt’altro che rosea, pare proprio che il «caso» italiano vada ormai mostrato nella sua eccezionalità, ben oltre i pericoli a suo tempo paventati per l’avvento al governo di Heider.
C’è poi un livello sociale dello scontro. Sembra urgente ricostruire un tessuto sociale, rilanciando pratiche associative nei luoghi in cui al movimento sono succedute cooperative, consulte etc., spesso imbrigliate, come è facile constatare, in dinamiche che scoraggiano la partecipazione e non permettono forme efficaci di rappresentanza. Accanto a queste molteplicità locali, è necessario un lavoro di rete che impari dalle sconfitte passate, valorizzi i momenti concreti di resistenza a scapito di una precoce traduzione «politica», permetta di costruire modelli per microcampagne quotidiane contro le discriminazioni. Solo il protagonismo e il radicamento delle istanze di base potrà portare a una lotta luogo per luogo, perché non si realizzino altri Lager, e i nostri Sindaci non emettano ordinanze ipocrite sulla non accoglibilità di carovane Rom e Sinti in mancanza di siti attrezzati, e magari rivolgano la propria attenzione al fatto che le comunità che amministrano stanno cominciando a esprimere potenziali assassini. Contro un senso comune che, sollecitato da politici e media, ha rispolverato i peggiori lasciti del fascismo in fatto di stereotipi contro i Rom, sarà bene reimparare a lavorare sull’influenza sociale dei meno nei confronti dei più. Negli anni ’60, la psicologia sociale, con Moscovici, imparò dai movimenti come sia possibile resistere al conformismo da parte delle minoranze attive. Le condizioni per rinnovare quei modelli di intervento sono più difficili, ma sembra decisivo introdurre elementi critici nel gioco della costruzione del consenso, e produrre momenti di resistenza durevole all’inferno del razzismo di stato.
C’è, infine, un livello simbolico, da sempre sottovalutato da tante brave persone ora parlate dal linguaggio dell’esclusione, in contrasto con le velleità solidali. Non sarà facile rinegoziare l’immagine dello straniero costruita in questi anni, e rimettere in questione l’egemonia culturale che una destra razzista oggi esercita, spesso col contributo subalterno dell’opposizione politica «accreditata». Su questo piano non sono possibili sottovalutazioni, quando la mancanza forzata di documenti viene categorizzata come un crimine, prima nel linguaggio dei media e dei politici, che tanto ama il termine «clandestino», poi (ma dopo anni di egemonia stigmatizzante) nei provvedimenti di legge. «Se ogni uomo senza documenti viene chiamato clandestino…»: l’espressione somiglia troppo a «Se ogni straniero è nemico»; Primo Levi tanti anni fa ci ha insegnato che quando si costruisce in tal modo la premessa maggiore di un sillogismo, la conclusione non può che essere il Lager. Da una parte ci sono parole e affermazioni, dall’altra, poco distanti e secondo una precisa catena consequenziaria, lo sterminio e la ricompattazione di una comunità su basi razziste. Le radici dell’impunità stanno anche nell’incapacità di mettere in questione un linguaggio per cui ogni straniero è nemico, ogni senzadocumenti è un criminale, la corruzione eretta a sistema di comportamento e di governo non è che un simpatico carattere nazionale, mentre ogni lavavetri è un pericolo sociale. In questa direzione hanno finalmente espresso preoccupazioni estreme, su cui bisogna che non si permetta a nessuno di minimizzare, alcuni giornalisti ed editorialisti: si vedano la «Carta di Roma», un documento fiorentino e gli interventi su Repubblica di Gad Lerner e Adriano Prosperi.
Non si tratta di un compito facile: il razzismo «è difficile da confutare perchè l’economia psichica di un’infinità di persone ne aveva bisogno e, probabilmente […] ne ha bisogno ancora oggi» [T.W.Adorno, Contro l’Antisemitismo, Manifestolibri 1994, p. 34].
Giuseppe Faso
ciao sergio tutto bene!?!?
Ti lascio l’indirizzo del blog che ho sostituito col vecchio (samizdatmedia) che hai messo negli amici.
buona giornata, ciao!
Vito.
P.S. Che casino nella rete (oh! tutti libertari sono diventati), mettono tutto e di tutto; cose di sinistra con cose di destra…Mah!
Ciao, continua così! meglio “pochi” argomenti ma chiari che un casino di roba che non si capisce che cacchio stai leggendo, o in che blog sei finito :-))
Ciao.. interessante questo post! L’ho scelto per la prossima puntata Post-iT, in onda su C6.TV
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Daniel Enrique C.
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