L’elezione di un afroamericano alla presidenza è il segnale di profondi mutamenti nel tessuto sociale e nell’immaginario collettivo degli Stati Uniti. Questo articolo, pubblicato dal sito Peacereporter pochi giorni prima delle elezioni, ci racconta cosa è successo. Soprattutto nel «profondo Sud», dove il razzismo e la segregazione non sono scomparsi, ma dove la società sta cambiando a ritmi velocissimi.
Quanta strada hanno fatto gli Stati Uniti in mezzo secolo lo puoi capire anche da un incrocio nel centro di Montgomery, la capitale dell’Alabama. Nella città dove negli anni Cinquanta Rosa Parks si rifiutò di lasciare il suo posto sull’autobus a favore di un bianco, dove Martin Luther King iniziò la sua campagna contro la segregazione e la discriminazione razziale, davanti al museo che celebra il movimento per i diritti civili troneggia il Civil Rights Memorial.
Su un cerchio di granito nero sono incisi i nomi di 40 persone che hanno pagato con la vita il colore della loro pelle, tra il 1954 e il 1968. L’acqua scivola lenta ma senza sosta, come fa scendendo lungo la frase di King «finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente», che fa da sfondo al monumento. Quella frase è uno dei punti più toccanti del discorso «I have a dream» pronunciato dal reverendo a Washington il 28 agosto 1963.
Un afro-americano alla Presidenza USA
Esattamente 45 anni dopo, in uno stadio di Denver, un afro-americano che all’epoca era appena nato è diventato il candidato del Partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti, delineando davanti a 80mila persone e 38 milioni di telespettatori la sua visione dell’America. Come Martin Luther King, è un mirabile oratore che con la retorica fa appassionare le folle, suscitando la speranza di un futuro migliore. Già la sua candidatura è il segno di una nuova epoca: «Mai, mai in vita mia avrei pensato di poter vedere un nero contendersi la Casa Bianca», dice il reverendo (bianco) Robert Graetz, attivo nel Civil rights movement al fianco di King. Alzi la mano chi l’avrebbe previsto anche soli quattro anni fa.
Ma il 4 novembre Barack Obama, il figlio di uno studente del Kenya e di un’antropologa del Kansas, ha serie possibilità di diventare il 44esimo presidente della nazione più potente del mondo. Può vincere, in un paese dove i bianchi cristiani di origine anglosassone sono ancora due terzi della popolazione, un mulatto che di secondo nome fa Hussein, figlio di un musulmano non praticante, con un’infanzia passata in Indonesia assieme a un patrigno anche lui fedele all’Islam, e diventato adolescente alle Hawaii? Fino a qualche mese fa, da quando ha battuto Hillary Clinton nelle primarie, la sua vittoria sembrava quasi scontata.
«Non faranno mai vincere un nero»
D’altronde, se la politica avesse una logica, qualunque candidato democratico vincerebbe facilmente. Dopo otto anni, George W. Bush ha il più basso tasso di popolarità per un presidente dai tempi di Nixon, meno del 30 per cento; otto americani su dieci credono che il paese stia andando nella direzione sbagliata. Nel voto per rinnovare il Congresso, si prevede che i democratici consolideranno la loro maggioranza conquistando altri seggi.
Eppure la sfida per la presidenza è apertissima. La «Obama-mania» si è pian piano sgonfiata, tanto che a inizio Settembre il repubblicano John McCain è passato in testa nei sondaggi. Chi ha sempre pensato «non faranno mai vincere un nero» ora teme di veder avverata la sua profezia. Che l’America non sia «pronta» per Obama?
Il «profondo Sud», dove il razzismo non è sparito
Dire che gli Stati Uniti sono cambiati è un’ovvietà, e l’evoluzione del «profondo Sud» ne è un esempio. Ancora negli anni Sessanta, dal Mississippi al North Carolina i neri subivano intimidazioni di ogni tipo per non votare: vere e proprie violenze fisiche, o domande assurde come la famosa «Quante bolle ci sono in una saponetta?», finché nel 1965 il Voting Rights Act eliminò queste pratiche discriminatorie.
La società segregata per legge non c’è più. Ma è anche vero che nella vita di ogni giorno, nelle amicizie, le vecchie consuetudini sono dure a morire. Tra bianchi e afro-americani permane un dislivello socio-economico che divide scuole, posti di lavoro, zone residenziali, e di conseguenza vite. Negli anni, progressivamente sempre più bianchi hanno scelto di mandare i loro figli nelle scuole private, in quelle pubbliche ci vanno solo i più poveri, quindi in prevalenza afro-americani. E anche all’interno di quegli istituti, spesso si formano gruppi in base al colore della pelle.
«Qui in Louisiana fanno due balli di fine anno diversi. White proms and black proms», racconta una madre cinquantenne di Baton Rouge. Neanche due anni fa, proprio in una high school della Louisiana, nella piccola città di Jena, alcune matricole afro-americane «osarono» sedersi sotto un albero dove tradizionalmente si incontravano gli studenti bianchi. Il giorno dopo, dai rami di quell’albero penzolavano tre cappi.
La stessa Montgomery, comunque una città di 200mila abitanti e quindi in teoria più «evoluta» rispetto a un qualsiasi piccolo centro dell’Alabama o del Mississippi, è divisa in una parte orientale più ricca e bianca, e una occidentale più povera e nera. Facendo la spesa in un Wal-Mart «al confine» tra le due zone, una signora bionda confessa di conoscere «molte persone che non verrebbero mai in questo supermercato, perché lo frequentano molti neri e si dice che il parcheggio sia pericoloso». Oltre alla diffidenza, c’è anche il fastidio se le barriere vengono superate, come capita quando le famiglie afro-americane vanno nei parchi delle zone bianche. Il contrario, assicurano a Montgomery, non avviene mai.
Il discorso razzista diventa tabù
Il razzismo, in sostanza, non è affatto sparito. E di conseguenza, specie nel Sud, esistono persone che non voterebbero mai Obama perché è nero. Ma dirlo apertamente, o esprimere pensieri razzisti, è diventato un tabù sociale. «Chi ha vissuto abbastanza da vederne tante, come me, sa che molti bianchi trovano mille scuse per non votare Obama perché l’idea di votare un nero li spaventa. Ma non lo ammettono neanche a loro stessi», dice Francina McWilliams, che cura un museo sull’emancipazione degli afro-americani a Dotham, Alabama, nell’edificio che una volta era la stazione dei bus, con ingressi e bagni separati per bianchi e neri.
Quantificare il peso di questo tabù a livello nazionale è impossibile, ma già i sondaggi sulle intenzioni di voto dimostrano che qualcosa non quadra. A Luglio, uno di questi ha evidenziato che il 94 per cento degli americani si dice disposto a votare per un presidente afro-americano. Ma il 25 per cento dice di conoscere molte persone che non lo farebbero. E solo il 68 per cento pensa che il paese sia pronto a vedere la Casa Bianca guidata da un nero.
La diffidenza dei bianchi verso Obama
Nel Sud dal passato segregazionista, dove il Civil Rights Act del 1964 ha in pratica – come previsto dall’allora presidente democratico Lyndon Johnson – consegnato tutti gli ex stati segregazionisti ai repubblicani, la diffidenza verso Obama raggiunge i picchi tra i bianchi di medio-basso reddito. Edward Vaughn, rappresentante per quattro mandati al Congresso del Michigan e ora ritornato nella nativa Alabama, traccia un parallelo tra le scelte politiche dei bianchi poveri di oggi con quelle dell’epoca della schiavitù. «L’intero sistema li ha addestrati così, da quando i proprietari delle piantagioni sfruttavano il loro risentimento contro i neri, che rubavano loro potenziali posti di lavoro perché costavano meno», spiega nella sala principale della sua casa-museo dedicata alla storia degli afro-americani.
Vaughn è un aperto sostenitore del candidato democratico, gira con un cappellino «Obama 2008» in città, e si dice ottimista perché a Dotham conosce tanti bianchi che dicono di voler votare per lui. Ma non lo fanno sapere troppo in giro. «La pressione sociale qui rimane forte. Se attaccassero adesivi per Obama sull’auto, o piantassero cartelli in giardino, molti li vedrebbero come “traditori”. I cartelli non durerebbero troppo, e la probabilità di trovarsi la macchina rigata sarebbe alta», aggiunge.
«Obama? E’ giovane e inesperto». I camuffamenti del discorso razzista
Il fatto che Obama sia nero, ma che farlo notare rimanga politicamente scorretto, per molti diventa così – consapevolmente o meno – un pretesto per rimarcare tutto quello che di lui non convince. Che è giovane e inesperto, per esempio, anche se Bill Clinton aveva un anno in meno quando venne eletto. Che è snob e un «elitist» perché parla troppo da professorino saccente (si è laureato ad Harvard, l’università più prestigiosa ma anche la più «disprezzata» dai conservatori che si vedono assediati dagli intellettuali liberal), pur venendo da una famiglia media e con la possibilità di frequentare scuole e università costose solo grazie a borse di studio per merito. L’ignoranza fa il resto.
«E’ gay e pure musulmano». Le strane voci su Obama
Nella middle America, non si fatica molto a trovare qualcuno che ha sentito strane voci su Obama: è nato in Africa, forse è gay, si rifiuta di giurare lealtà alla bandiera a stelle e strisce, è musulmano. In un centro commerciale di Montgomery, una coppia di giovani bianchi ammette che voterà per McCain. «No, non per Obama… forse la prossima volta», abbozza lui imbarazzato. La fidanzata concorda con un risolino, facilmente interpretabile come un «non succederà mai, almeno per noi». Quando le viene chiesto se il loro voto è influenzato dal colore della pelle di Obama, il disagio a parlarne è evidente. «No, certo che no», dicono entrambi arretrando e contorcendosi le mani. «Ma ci sono troppe cose che non so di lui, e ho sentito che è musulmano», aggiunge lei. Di fronte al giornalista che la “tranquillizza” dicendole che non è così – dopotutto, Obama viene associato ancora oggi ai commenti antipatriottici del suo ex reverendo Jeremiah Wright – la ragazza non sembra convinta: «Ne sei sicuro?», chiede.
Per combattere le voci false, lo staff di Obama ha istituito un sito apposito, Fight the Smears. E quando il candidato democratico ha voluto spezzare questo meccanismo scherzandoci su, dicendo in un comizio che i conservatori non parlano apertamente delle sue origini miste ma fanno notare che «non è come gli altri presidenti sulle banconote dei dollari», i repubblicani lo hanno accusato di giocare scorrettamente la carta della razza.
L’America «post-razziale»: la strategia comunicativa di Obama
In un certo senso, è vero invece il contrario. Il ragazzino magro dal nome buffo, «the skinny boy with a funny name», come si è autodefinito Obama descrivendo la sua incredibile storia, è una novità anche perché non si è mai voluto presentare come «il candidato nero». Farlo, essere percepito come un rancoroso difensore delle istanze afro-americane al pari dei reverendi Jesse Jackson e Al Sharpton, avrebbe significato andare incontro a una sicura sconfitta già nelle primarie. Invece, Obama si è sempre posto come la faccia di una «nuova America», post-razziale, più inserita nel mondo. Come il candidato presidente degli Usa al tempo della globalizzazione.
Dopotutto, parlando di fronte a 200mila persone a Berlino, lo scorso luglio non ha forse detto «Sono qui da cittadino del mondo»? Se fosse così, se tutto il pianeta potesse votare per la presidenza statunitense, Obama trionferebbe senza problemi: in Europa raggiunge consensi intorno al 90 per cento. Ci piace perché rappresenta il volto della «America che vorremmo»: una nazione – come ha detto l’ex presidente Bill Clinton nel suo discorso alla convention dei democratici – «che affascina il mondo con la forza del proprio esempio, non con l’esempio della propria forza», un chiaro riferimento a Bush.
Stati Uniti ombelico del mondo: l’immaginario americano
La pensano così anche gli americani contagiati dalla Obama-mania. «Quando viaggio, ormai mi vergogno di dire che vengo dagli Usa», spiega sconsolato Chris, uno studente del Mississippi con due viaggi in Europa alle spalle. Ma quelli come Chris, gli americani che viaggiando si confrontano con stranieri, sono una ristretta minoranza. Si stima che solo il 25 per cento sia munito di passaporto; ed è una percentuale quasi raddoppiata in pochi anni, da quando è necessario averlo per entrare in Canada e Messico.
Un paese tradizionalmente abituato a considerarsi «la città splendente sulla collina», il punto di riferimento a cui guardano gli altri, tende a pensare che il resto del mondo non abbia granché da offrire. Se poi sei cresciuto nella nazione che da settant’anni è una superpotenza mondiale, è facile non vedere la necessità di venire incontro al punto di vista degli stranieri su come «dovrebbe» essere l’America.
Così, gli elementi che portano molti europei a tifare per Obama sono gli stessi che spingono milioni di americani a guardarlo con diffidenza. «Non mi sembra che esista la nazionalità del mondo», ha commentato un analista conservatore sbeffeggiando quel trionfale discorso di Berlino.
La forza di Obama è anche la sua debolezza, insomma. Può ripetere quante volte vuole che «solo in America la mia storia sarebbe stata possibile», ma per la maggioranza degli americani di una città qualsiasi tra le due coste sarà comunque più istintivo identificarsi con Sarah Palin, la governatrice dell’Alaska scelta da McCain come sua vice: una madre di cinque figli che ha richiesto il passaporto solo l’anno scorso, quando le serviva per andare a trovare le truppe della Guardia Nazionale in Kuwait.
Contro l’America multiculturale: la strategia degli avversari repubblicani (e non solo)
E su questo, per quanto non con i toni usati ora dai repubblicani, ha fatto perno anche la campagna di Hillary Clinton durante le primarie. In un memorandum interno dello scorso marzo intitolato «La strategia per vincere», l’allora capo dello staff dell’ex first lady, Mark Penn, delineava così l’attacco a Obama: «Tutti questi articoli sulla sua infanzia in Indonesia e la sua vita alle Hawaii vogliono mostrare che il suo background è vario, multiculturale. Che se lo tengano per il 2050… Non riesco a immaginare un’America che elegge un presidente, in tempo di guerra, che non sia fondamentalmente americano nel suo modo di pensare e nei suoi valori».
Anche la campagna dei repubblicani ha voluto giocare su questa contrapposizione. Da una parte Obama, il professorino che parla senza accenti regionali, che ammalia le folle e pensa di avere una soluzione a tutto con il suo appello per il «change»; ma anche perché «diverso», ci si può giustificare dicendo che «non si sa veramente cosa pensi», una delle accuse più spesso ripetute da chi sembra voler trovare una scusa per non votarlo. Dall’altra McCain il soldato, legnoso nei comizi ma in fondo sincero, paterno, «più comune» nella sua intonazione; e americano vero, capace di farsi torturare per il suo paese, nei suoi cinque anni e mezzo di prigionia in Vietnam. “Country first”, come il suo slogan. La patria prima di tutto.
Neri, ispanici, asiatici: la «platea» di Obama
Per capire che questa non è una campagna elettorale come un’altra, bastava guardare la composizione della platea durante le convention dei due partiti. Il 41 per cento dei delegati democratici era nero, ispanico, asiatico o afro-americano; tra i repubblicani, mentre parlava McCain, le facce non bianche erano sparute eccezioni. Anche alla luce di un recente rapporto, che ha indicato nel 2042 l’anno in cui i bianchi non di origine ispanica non saranno più la maggioranza negli Usa, la sfida del 4 Novembre appare sempre più come una sfida tra due idee diverse di America, anche demografiche. Il «change», insomma, è già in atto.
Progressisti e conservatori prendono le rispettive posizioni, in elezioni che sono ormai diventate un referendum – non a caso, si parla di «Oba-maniacs» contro «Nobama» – su un candidato che ha cambiato il modo di fare politica negli Usa, coinvolgendo in particolare i giovani.
I giovani e l’«icona Obama»
La variabile imprevista potrebbe essere rappresentata proprio dagli under 30. C’è chi fa notare che i sondaggi non possono fotografare le intenzioni di voto di questa fascia di giovani «mobili», perché vengono chiamate solo le persone che hanno un telefono fisso. L’immensa rete di volontari di Obama ha fatto registrare centinaia di migliaia di nuovi elettori.
Testimone in prima persona dei cambiamenti degli Usa negli ultimi cinquanta anni, da Montgomery il reverendo Graetz vede un’America che è pronta per Obama. «La società è cambiata perché diverse sono le persone. I giovani di oggi hanno una mentalità molto più aperta di quelli degli anni Cinquanta. I semi di Martin Luther King, sparsi tanti anni fa, hanno attecchito», dice.
Come King, come Che Guevara, come un cantante rock rivoluzionario, Obama è già diventato un’icona: nei negozi di New York il volto di Obama riempie T-shirt di ogni tipo. Naomi Klein, l’autrice di «No Logo», ha parlato del «marchio Barack Obama». Ma anche se la sua favola e il suo messaggio hanno fatto sognare milioni di persone, il candidato democratico deve stare attento. Perché le icone che finiscono sulle magliette, pur avendo contribuito a cambiare il mondo, di solito condividono un aspetto: in un modo o nell’altro, hanno perso.
Alessandro Ursic, dal sito PeaceReporter. Titolo originale dell’articolo: «Obama: l’America è pronta?»
Per approfondire il tema razzismo/elezioni in America vedi anche:
– Dopo anni di paura, Obama ha rimesso in campo la speranza. Intervista al prof. Alessandro Portelli, da GlobalProject
– Il ruolo della comunità ispanica nell’elezione di Obama. Intervista al giornalista Matteo Dean, da GlobalProject
– Obama, il razzismo e l’Italia. Articolo di Barbara Spinelli su La Stampa. Dal sito Eddyburg
– Diario di viaggio americano, a due settimane dalle elezioni. Dal blog di Alessandro Portelli
– Discorso sulla razza, di Barack Obama, pronunciato il 18 Marzo 2008 al National Constitution Center di Filadelfia. Video con traduzione in italiano, da sherpatv; video con sottotitoli in italiano, da youtube (prima parte; seconda parte)
– Obama: dal Black Power alla Black House, di Vincenza Perilli, dal blog Marginalia
io mi kiedo la ragione del razzismo!! intanto siamo tti uomini no?? nn si può x 1 volta sola vivere tti uguali? meno male k ha vinto Obama !! io tifavo x lui!!! speriamo k ora la vita sia diversa in America!!
Shelly_Vampire
sono d’accordo con shelly
ecco una battuta: cos’è il razzismo? mia zia