Eva Rizzin è una giovane sinta, che ha conseguito un dottorato di ricerca in geopolitica all’Università di Trieste. Da tempo svolge il suo attivismo con l’associazione di promozione sociale OsserVazione, che promuove e difende i diritti umani delle minoranze Rom e Sinte in Italia. Fa parte del Comitato Rom e Sinti Insieme, il primo coordinamento nazionale di Sinti e Rom. Le ho fatto questa intervista, di prossima pubblicazione su un volume dedicato alle problematiche dei Rom.
Eva conosce dall’interno la “cultura” dei Sinti, e forse ci può dire qualcosa in merito.
Nell’opinione comune, quella dei Rom e dei Sinti è vista come una cultura chiusa, omogenea. In genere si parla dei Rom e dei Sinti o in termini eccessivamente “romantici” (figli del vento, musicisti, danzatori ecc.), oppure in termini estremamente negativi: in questo secondo caso, gli “zingari” sono quelli che, per cultura, rubano, rifiutano le regole, trattano male i bambini, vivono di elemosina… Quello che è importante capire è che non esiste una cultura Rom omogenea: ogni gruppo, ogni comunità ha delle sue caratteristiche specifiche, ed è molto difficile generalizzare. Bisogna imparare a capire che i Rom e i Sinti sono un universo plurale, con una molteplicità di culture, tradizioni, costumi. E, soprattutto, bisogna evitare di dipingere la “cultura Rom” in modo caricaturale: è come se si parlasse degli italiani in termini di “spaghetti, mafia e mandolino”…
Ci puoi fare una “mappa” dei diversi gruppi?
Beh, non è facile, perché spesso le caratteristiche variano da una comunità locale all’altra. In Europa le comunità sono variegate e si autodefiniscono i diversi modi. Tradizionalmente, i Rom europei si suddividono in quattro grandi gruppi: i Rom, i Sinti, i Manush, i Kalè e i Romanicel. Poi, però, anche all’interno di queste suddivisioni troviamo differenze rilevanti, quindi bisogna sempre essere molto cauti e non generalizzare. In Italia abbiamo sia Rom che Sinti di antico insediamento, presenti nel nostro paese sin dal XV secolo, e dunque parte integrante della popolazione e della storia italiane, tanto che un numero rilevante di essi ne ha la nazionalità. Quando si parla dei Rom si parla in realtà di un mondo molto eterogeneo, che comprende cittadini italiani, cittadini comunitari e non comunitari, immigrati giunti in Italia in varie ondate, la più consistente delle quali iniziata negli anni ’90 con la dissoluzione della Jugoslavia e il crollo dei regimi comunisti: si tratta, in quest’ultimo caso, di vari gruppi che provengono in particolare da Macedonia, Kossovo, Bosnia, Serbia e più recentemente Romania. Ora, una caratteristica di tutti questi gruppi, dell’Est e dell’Ovest, è che parlano (o è attestato che parlassero ancora nell’Ottocento) dialetti del ròmanes, una lingua neo-sanscrita imparentata con le lingue oggi parlate nel nord-ovest dell’India. Essendo stata tramandata oralmente, la lingua ròmanes si è arricchita, nel corso dei secoli, dei vocaboli e dei linguaggi con cui è venuta in contatto, e quindi in Europa dei linguaggi e dei dialetti europei a seconda dell’itinerario seguito da ogni gruppo. Per esempio nella mia comunità, ossia i “Sinti Gackane Eftawagaria” detti anche Sinti Teich (tedeschi) si parla un ròmanes fortemente influenzato dalla lingua tedesca, in effetti proveniamo dalla Germania.
Tu insisti sulla “molteplicità” delle culture Rom e Sinte. Però le rappresentanze dei Rom parlano anche di una cultura comune…
Certo, al di là delle differenze, ci sono elementi che ci accomunano. Ne cito almeno due. In primo luogo, direi che esiste in tutte le comunità un forte senso di appartenenza identitaria. Se si avverte un elemento comune nell’identità, è spesso proprio a causa del fatto di essere stati e di essere tuttora vittime di discriminazione ed esclusione, cosa che ci ha spinti, nel corso nei secoli, a rinchiuderci nelle nostre comunità rafforzando l’appartenenza identitaria al gruppo.
Politiche “anti-Rom”, etnocide, mirate all’assimilazione e all’annientamento culturale identitario sono state le principali protagoniste della nostra storia. Durante la seconda guerra mondiale vennero sterminati più di cinquecentomila fra Sinti e Rom, vittime del nazionalsocialismo e dei suoi folli progetti di dominazione razziale. Purtroppo la storia dello sterminio dei Rom e dei Sinti è stata per troppo tempo dimenticata. Eppure l’argomento dovrebbe suscitare interesse anche solo per il fatto che la persecuzione dei Sinti e Rom in epoca nazista è stata dettata da motivazioni esclusivamente razziali. Secondo l’aberrante l’ideologia nazista, i Sinti e i Rom erano considerati “razza inferiore”, indegna di esistere destinata quindi non alla sudditanza e alla servitú al Terzo Reich, ma alla morte. In questi secoli di persecuzioni, la coesione identitaria e anche – diciamo così – l’orgoglio di essere Rom e Sinti hanno rappresentato uno strumento fondamentale di resistenza.
In secondo luogo non dimentichiamo l’elemento d’unione caratterizzato dalla lingua, il ròmanes, di cui parlavo prima.
Ecco, queste due caratteristiche – il senso di appartenenza e la lingua – sono senz’altro elementi comuni.
Qualcuno dice che un altro elemento comune è il “nomadismo”, il rifiuto di vivere sempre nello stesso luogo, la cultura del viaggio e della mobilità…
Il maggior stereotipo, che ha peraltro condotto alla creazione di politiche istituzionali scorrette, è quello relativo al nomadismo. Molti percepiscono le comunità Rom e Sinti come nomadi, quasi nessuno però riconosce il fatto che i Rom e i Sinti sono stati costretti alla migrazione, costretti al viaggio, costretti a lasciare le proprie terre, e molte sono state le espulsioni forzate. Più che di nomadismo sarebbe più opportuno parlare di migrazione forzata. Discriminazioni, persecuzioni, sgomberi, hanno costretto molte comunità a spostarsi continuamente, oppure a vivere in baracche, roulottes e campi nomadi. A pochi viene in mente che la condizione di sedentarietà è propria, sin da epoche assai remote, di numerosi gruppi Rom e Sinti. E, per parlare del presente, i più ignorano che i Rom provenienti dalla ex-Jugoslavia e più in generale dai paesi dell’Europa orientale fino a tempi recentissimi erano del tutto sedentarizzati. È vero che ci sono anche comunità che necessitano di maggiore mobilità: è il caso di alcune comunità Sinte che vivono di attività commerciali itineranti (giostre, luna park).
Come hai vissuto il tuo essere una “Sinta”?
Mia madre è Sinta e ha vissuto per tanti anni in condizioni di notevole povertà ed esclusione sociale. Quand’ero piccola insisteva molto perché io andassi a scuola, e mi diceva sempre: “non dovrai mai vergognarti di essere Sinta, ma dovrai studiare, perché così potrai spiegare meglio agli altri chi siamo”.
Per me non è stato facile definirmi, elaborare la mia identità. Soprattutto nella prima adolescenza ho avuto anche io un momento di crisi: il fatto di essere Sinta mi faceva sentire diversa, e a volte ho vissuto questa identità come un peso. Poi, rielaborando con maggiore consapevolezza le cose che diceva mia mamma, ho imparato non solo ad accettare la mia cultura, ma anche ad esserne orgogliosa. Tutto ciò mi ha portato a scrivere una tesi di laurea interamente dedicata alla cultura della mia comunità, infine il dottorato in geopolitica interamente dedicato al fenomeno dell’Antiziganismo nell’Europa Allargata.
I Rom e i Sinti rifiutano di essere chiamati “zingari”. Perché?
Si tratta di un termine improprio perché è un eteronimo, cioè un nome imposto dall’esterno, che è anche frutto di pregiudizio: la parola “zingaro” suscita diffidenza e ostilità. È un po’ come definire “crucchi” i tedeschi, o “maccaroni” gli italiani: sono definizioni dispregiative e offensive. Quando si parla delle nostre comunità, bisognerebbe sempre utilizzare l’autonimo, cioè il nome che queste stesse comunità hanno deciso di darsi: i termini corretti in Italia sono dunque “Rom” o “Sinti”.
Quando è emersa l’emergenza sicurezza negli ultimi mesi, i Rom sono stati accusati di essere il principale problema per l’ordine pubblico…
La questione della sicurezza è stata strumentalizzata dal sistema politico, e i Rom sono diventati il “capro espiatorio”. Non bisognerebbe mai dimenticare che le responsabilità penali sono sempre individuali: in altre parole, se viene compiuto un delitto, chi deve essere punito è il colpevole di quel delitto, non la comunità di cui fa parte.
Non si tratta di “buonismo”: la sicurezza è un diritto di ogni cittadino, e gli autori dei reati debbono essere assicurati alla giustizia. Ma nel caso di Giovanna Reggiani [la donna violentata e uccisa a Roma nel Novembre scorso, ndr], invece di perseguire individualmente il colpevole, si è punita un’intera comunità, e la colpa è ricaduta su tutti i Rom. Questo è non solo profondamente ingiusto, ma ha poco a che fare con la sicurezza: essere sicuri significa sapere che la giustizia funziona, che i colpevoli dei reati vengono puniti, non che vengono perseguitate intere comunità. In nome di una presunta emergenza, si sono sgomberati campi dove vivevano uomini, donne e bambini che non avevano fatto nulla di male. Questa è discriminazione e razzismo, non tutela della sicurezza…
I Rom e i Sinti in Italia lamentano una scarsa tutela dei loro diritti. Ce ne puoi spiegare i motivi?
In Italia molti Rom vivono in “campi sosta” indegni di un paese civile: che questo sia lesivo dei diritti non lo diciamo noi, ma lo scrivono importanti istituzioni europee e internazionali. Solo per fare un esempio, il Comitato Europeo per i Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, nella decisione sul reclamo n. 27/2004 del 7 Dicembre 2005, ha ribadito che – cito testualmente – «l’Italia non ha dimostrato di prendere misure adeguate per assicurarsi che ai rom e sinti vengano offerte abitazioni in quantità e di qualità sufficiente ai loro bisogni particolari; né ha dimostrato di assicurarsi […] che le autorità locali stiano adempiendo le loro responsabilità». Sempre secondo il Comitato, i “campi nomadi” costituiscono una violazione dell’Articolo 31§1 della Carta dei Diritti Sociali.
Ai Rom e ai Sinti non viene riconosciuto inoltre lo status di minoranza linguistica: la legge 482/99 sui diritti delle minoranze ha volutamente escluso il ròmanes, e ha disatteso così norme, principi ed impegni internazionali, in particolare la carta europea delle lingue regionali minoritarie (in vigore dal 1 marzo 1998) che prevede esplicitamente norme (punto C) «anche per le lingue sprovviste di territorio come l’yiddish e il ròmanes».
Per non parlare poi delle numerose discriminazioni sul lavoro, delle politiche degli sgomberi e degli allontanamenti forzati (condannati duramente dal Comitato Europeo per i Diritti Sociali), del mancato accesso agli alloggi pubblici: l’elenco dei diritti violati sarebbe lunghissimo.
In genere si accusano i Rom di volere solo i diritti, e di non rispettare i doveri.
Il rapporto tra diritti e doveri è posto male, nelle discussioni pubbliche: sembra quasi che ci sia una relazione di scambio, i diritti in cambio dei doveri. Noi diciamo che ogni individuo ha dei diritti e dei doveri: gli uni e gli altri devono essere uguali per tutti. I Rom e i Sinti hanno meno diritti e, spesso, più doveri. Penso ai “Patti di legalità” di Milano, dove agli abitanti dei campi nomadi sono imposti obblighi – per esempio il divieto di ospitare temporaneamente altre persone – che non imporremo a nessun altro. Chi viola queste disposizioni perde il diritto di stare nel campo, assieme a tutta la famiglia: in quale Stato di diritto si condanna una persona per la violazione di obblighi non previsti dalla legge, per di più coinvolgendo l’intera famiglia? Certo che ci sono i doveri, nessuno di noi lo nega: e chi viola le leggi deve essere punito. Quello che non è accettabile è l’esistenza di un diritto speciale, con obblighi e doveri che valgono solo per i Rom. I cittadini sono tutti uguali: o no?
Buon primo maggio.
Ciao
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