In seguito all’omicidio di un ragazzo di colore, si è scatenato un battage mediatico senza capo nè coda: una vera e propria cortina fumogena di dichiarazioni e polemiche che, invece di far luce sull’episodio, hanno finito per occultarlo del tutto. Ecco una piccola cronaca di una giornata tutta da riscrivere.
In Italia, se un immigrato si rende colpevole di omicidio, tutto è chiaro: si scatenano i giornali e le televisioni, si grida all’emergenza immigrazione, si invocano espulsioni e rimpatri, ci si lamenta delle frontiere spalancate, si chiede l’intervento di chiunque, dalle forze armate alla NATO. Tutto torna, tutto è facile da raccontare, da capire, da scrivere. Ma quando avviene il contrario, quando è un italiano ad uccidere un immigrato (o presunto tale), l’informazione e la politica vanno in tilt: e così è successo ieri.
I fatti, nella loro brutalità, sarebbero semplici. Siamo a Milano, zona Porta Romana, in un bar che si chiama Shining [!!]. Ci sono tre ragazzi molto giovani, tutti di colore: uno è straniero ruandese, gli altri due sono cittadini italiani. I ragazzi escono dal bar in fretta, e i proprietari pensano di essere stati derubati di un pacco di biscotti. I gestori del locale, furiosi, rincorrono i ragazzi, li raggiungono e si accaniscono contro uno di loro, Abdul Salam Guibre, cittadino italiano originario del Burkina Faso: lo colpiscono con una spranga e lo uccidono, urlandogli «ladro, negro di merda», «sporco negro, ti ammazziamo».
Questo è quello che è successo: ma ai giornali e al mondo della politica i semplici fatti non bastano. Soprattutto quando smentiscono lo stereotipo del «negro» cattivo e del «bianco» buono. E allora bisogna ricamarci sopra, gironzolarci un po’ intorno, sollevare cortine fumogene per confondere le acque.
I giornali si danno da fare. A metà mattinata esce un lancio di agenzia – ripreso dai principali siti di informazione, dal Corriere a Repubblica – che comincia il resoconto dei fatti in questo modo: «Abdul era con altri due amici di colore, Samir R., 19 anni di Reggio Calabria, e John K., 21enne del Ruanda con permesso di soggiorno scaduto». Non si capisce bene quale rilevanza abbia la data di scadenza del documento, in una cronaca che parla di omicidio. La cosa puzza di insinuazione di basso livello: ma per fortuna passa inosservata, sommersa com’è dal fuoco di artificio delle dichiarazioni dei politici.
Questi ultimi si azzuffano accusandosi a vicenda della responsabilità morale del delitto. Veltroni se la prende con la Lega e con il clima di odio contro il diverso agitato dai padani: e lo dice lui, che il 31 Ottobre scorso – all’indomani dello stupro di Giovanna Reggiani – aveva luminosamente pontificato sull’«unica matrice rumena» delle violenze sessuali.
Il Presidente PD della Provincia di Milano, forse preoccupato di tanta apertura, corregge il tiro e commenta l’omicidio invitando a «non sottovalutare i dati del Ministero degli Interni, secondo cui la maggior parte dei reati sono commessi da immigrati clandestini». Cosa c’entrino gli immigrati clandestini con un delitto commesso da un italiano contro un altro italiano lo sa solo lui. Poi, però, anche Penati se la prende con il nuovo Governo: «quando tutto il problema sicurezza si riconduce solo ai rom», spiega, «passa il messaggio che il problema è quello del contrasto con chi è di un’altra nazione o di un’altra cultura. Ma non è colpendo il diverso che si conquista sicurezza». Peccato che proprio Penati, su La Repubblica del 14 Maggio scorso, avesse proposto di «azzerare i campi nomadi nel milanese», schierandosi apertamente a favore del decreto sicurezza varato da Berlusconi.
Intanto la Procura annuncia di non aver contestato agli assassini l’aggravante di odio razziale. A quanto pare, i due gestori del locale avrebbero agito «solo» per i biscotti, non per xenofobia. Il Governo coglie l’occasione per levarsi d’impiccio, e Berlusconi dichiara: «ho parlato con i responsabili del Ministero dell’Interno, e mi hanno espresso il loro convincimento che non c’entri niente il razzismo, il colore della pelle». In realtà, il razzismo non è stato il movente dell’aggressione: ma il ragazzo è stato ucciso al grido di «sporco negro», che a casa mia è una frase razzista.
La Lega Nord, offesa per essere stata chiamata in causa quasi come mandante morale del delitto, si risente e rovescia l’accusa sull’avversario: i veri razzisti sono quelli della sinistra, tuona Paolo Grimoldi, coordinatore dei Giovani Padani. Che spiega: «La sinistra dovrebbe interrogarsi sul perché si verificano casi di razzismo. Allora capirebbe che non porre un freno all’immigrazione non ha fatto altro che aumentare i rischi». Insomma, per arginare il razzismo bisogna allontanare gli immigrati: che è un po’ un modo gentile per dire «non siamo noi i razzisti, sono loro che son negri»…
Con il passare delle ore, la vicenda specifica – e tragica – del delitto è trascolorata in una polemica tanto veemente quanto priva di senso. Ai giornali e agli uomini politici piace molto trarre conclusioni generali da singoli fatti di cronaca: così, se l’omicidio di Giovanna Reggiani era colpa dei rumeni (di tutti i rumeni), e se le accuse – tutte da dimostrare – di una signora a Ponticelli insegnavano che gli zingari rubano i bambini, oggi si può disinvoltamente dire che l’uccisione di un ragazzo di colore fuori da un bar è tutta colpa della Lega che è razzista, o della sinistra che fa entrare gli immigrati.
Le generalizzazioni richiedono cautela e un qualche rigore metodologico: sennò non aiutano a capire, e sollevano solo nubi di polvere. Il fatto di Milano ha una propria dinamica, che andrebbe analizzata nella sua specificità e singolarità. Poi, certo, è legittimo e utile individuare nessi, legami, contesti: ma questi non chiamano in causa una singola forza politica, un unico responsabile o un solo mandante morale.
In Italia si è assistito ad una escalation progressiva di criminalizzazione di immigrati, Rom, venditori ambulanti «abusivi», «clandestini» e quant’altro: e queste figure sono state additate – dal sistema politico e dalla stampa, con pochissime eccezioni – come bersagli fragili e inermi, su cui scaricare la rabbia collettiva. Gli assassini di Milano avevano i loro motivi per fare quello che hanno fatto: ma, forse, hanno sentito – anche – di poter esercitare liberamente violenza su un nemico «facile», privo di protezione. Quante volte giornali e televisioni hanno di fatto assolto commercianti che uccidevano ladri in fuga dai loro negozi? Quante volte la furia della sicurezza ha legittimato reazioni sproporzionate contro Rom o immigrati, magari colpevoli di piccoli reati?
Qui si potrebbe – con la dovuta cautela, e avendo sempre cura di guardare al fatto specifico, alla sua irriducibilità – tentare qualche generalizzazione. E non per prendersela con la Lega, ma con un sistema dell’informazione e della politica avvelenato nel suo complesso.
Precisazione: quel bar non è in Porta Romana, ma in zona stazione centrale (dalla parte opposta della città).
Sul clima di razzismo, strisciante o manifesto, che si respira in questa città, ecco cosa succede a pochi km. di distanza, quasi contemporaneamente:
http://blackcat.bloggy.biz/archive/3280.html
Splendido articolo.
Grazie per aver riassunto così chiaramente i passaggi di questa mistificazione messa in atto da giornali e politici.
Grazie per la riflessione.
Grazie per l’indignazione.
Grazie a voi per i commenti, e per le informazioni supplementari che fornite. Quanto alla precisazione sul luogo del delitto, non sono pratico di Milano e mi sono fidato della stampa: e come al solito, mai fidarsi…
PS: ciao Sergio hai vinto un Meme http://faunosilvestre.wordpress.com/2008/09/16/meme/
E’ una cosa carina, nessuno spam non ti preoccupare ^_^
Grazie, faunosilvestre. Come si dice? Troppo buono…
grazie Sergio dei tuoi bellissimi pezzi.
Un caro saluto
Devi scrivere piu spesso, Sergio. Grazie.
Stai facendo un grande lavoro.
Saluti, dal cuore
i
segnalo:
Addio Abdul già dimenticato al funerale
di Pippo Delbono – La Stampa – 24/09/2008
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=5036&ID_sezione=&sezione=http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=5036&ID_sezione=&sezione=
il collegamento non funziona ….
La Stampa 24/9/2008
Addio Abdul già dimenticato al funerale
PIPPO DELBONO
Questa mattina mi sono svegliato presto e mi sono vestito elegante per andare a Cernusco sul Naviglio al funerale di Abdul Graibe detto Abba, nero, morto ucciso a Milano. Per un piccolo furto, rincorso e bastonato a morte.
Non vado mai ai funerali delle vittime famose, ai funerali degli artisti importanti, dei caduti per difendere la patria, non sono andato alla passerella di lutto dei morti della ThyssenKrupp. Ma questa mattina ho deciso di andare. A Cernusco sul Naviglio, un paesino nell’hinterland milanese. In una giornata di pioggia. Arrivato lì, vedo con sorpresa che c’è poca gente. Per la maggior parte neri. Vicino alla bara di Abdul i parenti, gli amici, qualche bianco. Alcuni piangevano, altri guardavano con gli occhi vuoti il feretro. Ho cercato le corone di fiori. Erano quattro, o forse cinque. Piccole. Una di un gruppo di donne, una della Provincia di Milano. Basta. Non c’era nessun’altra corona. Di Comune, Stato, Chiese, Sindacati, Comunisti.
La sala che ospitava il feretro, una sala auditorium quasi vuota. Litanie come lamenti, cantati con discrezione, forse per non irritare i laboriosi vicini milanesi. Un uomo, che poi ho capito che era il padre di Abdul, accoglieva le persone, sorridente. E ringraziava. Un altro uomo vicino a lui, più giovane, il viso disperato dove si vedeva la rabbia. C’era qualcosa di antico, di poetico, di unico, di straordinario in quel commiato delicato che non voleva fare troppo rumore. Non ho visto nessun politico importante, nessun prelato importante, nessun artista importante, nessun giornalista importante.
Qualcosa come una rabbia mischiata al pianto mi è salita nell’assistere al funerale di quel martire negro, diverso da quelli bianchi onorati e rimborsati vicino ai quali i nostri fantocci politici si fanno volentieri vedere con gli occhi rossi. Quelle poche persone presenti salutavano e abbracciavano la famiglia come se stessero entrando nella loro casa. C’era in quell’atto di commiato funebre una bellezza, una poesia, una sacralità che è ormai impossibile vedere nel mio Paese. Volgare, fascista, razzista. Mascherato da finto cattolicesimo, finto comunismo, finto pietismo. All’uscita su un piccolo quaderno ognuno scriveva il proprio nome, o un saluto a questo uomo ucciso dalla volgarità e dimenticato.
«Ciao Abdul e scusami per questo paese di m.», gli ho scritto io. A poco a poco l’esiguo corteo si è avvicinato in silenzio alla bara. Il padre di Abdul restava lì fermo con gli occhi lucidi e il viso sorridente, portando una dignità più forte del suo dolore. E prima di salire su una macchina, quasi come un ultimo regalo sublime di civiltà, libertà e saggezza a quei pochi presenti, con un dolce sorriso ci ha detto: «Grazie a tutti, l’affetto che mi dimostrate in questo momento serva a una giustizia vera». Grazie al papà di Abdul, grazie a Abdul, che mi avete regalato in questa giornata grigia, triste, drammatica, scandalosa di inizio autunno, uno squarcio di luce.
Credo che tutti noi dobbiamo salutare abdul, vittima di questo clima di odio.